di GIORGIO SEGATO

Da quasi vent’anni ormai seguo con interesse sempre vivo l’arte di Piero Perin, innamorato del suo mondo pittorico e plastico, delle sue sensibilissime ricerche sulla linea curva che in delicate anse conquista gli spazi e i volumi dell’identità profonda dell’essere, affascinato dalla singolare capacità di immersione panica e di restituzione attraverso il colore e le immagini di un sentimento della realtà e della vita radicato nella memoria collettiva della specie, inscindibile dalla natura, modellato nella materia di un’esperienza millenaria di cultura, di indagine introspettiva, di proiezione emotiva e intellettiva sui significati del reale.

Il mito come campo di indagine e come prassi mediativa è il terreno culturale complesso ed estremamente suggestivo entro il quale si muove l’arte di Piero Perin: il mito come metafora di una conoscenza altrimenti indicibile e inaccostabile nella sua interezza, nella sua molteplice valenza. Verrebbe quasi da dire che Piero Perin si muove ora in un ambito di estrema attualità culturale, all’interno di una poetica entrata negli anni recenti nell’esperienza delle più giovani generazioni, le quali recuperano il mito e l’arte del passato, li riattraversano, li rielaborano in citazioni, allusioni, riferimenti con la nostalgica melanconia di chi è consapevole della “morte” del mito stesso, e con essa e in essa vive la morte dell’arte. La riproposta della pittura colta, degli anacronisti e dei citazionisti è “fredda”, necrofila, incapace di restituzione stimolante e mobilitante ed è, dunque, lontanissima dal mondo dell’emozione calda, guidata e raffinata dall’intelligenza coltivata e attenta di Piero Perin, per il quale, invece, il mito vive, continua e sa riaccendere la fiamma della vita e il senso dell’arte.

“Ho sempre cercato di purificare e decantare le mie immagini – scrive Perin – per liberarle dalle scorie del quotidiano e del contingente, e tenderle verso significanze metafisiche e utopiche”. E questa tensione non è l’impotente rivisitazione “archeologica”, come evasione o fuga dalla realtà della nuova scienza, della telematica e della robotica, sentita come inaccessibile, disumanante, ma è riaffermazione e ricerca di valori sovrarazionali permanenti che, secondo una concezione neoplatonica e junghiana, consentono di evidenziare gli archetipi della psiche, di evocare i contenuti e i simboli di quel magico scrigno di esperienza decantata e di conoscenza distillata che è l’anima collettiva. Perin rifiuta di vivere le trasformazioni della tecnologia contemporanea come perdita mortale e definitiva.

“Penso – ha dichiarato – che compito della cultura e dell’arte sia proprio quello di comprendere tale trasformazione, di salvare gli antichi valori e di proporre scelte positive, capaci di dare significanza al vivere e all’azione umana”. Così egli si pone in “ascolto”, slarga i tempi meditativi, stende la capacità percettiva oltre l’apparente sensoriale e utilizza gli elementi naturali come simboli carichi di contenuti esistenziali sedimentati in secoli di esperienza diretta, di immersione totale nella natura come contesto esclusivo dell’esperienza e anche di ogni proiezione trascendentale: mito e logos un tempo si fondevano nella spiegazione della divinità e della sua opera, delle forze naturali, del posto e del compito dell’uomo nel mondo, poi la speculazione razionale interpreta il mito, tende a superarlo e ad annullarlo, ma esso resta come metafora di una conoscenza totale e perfetta, percettiva e razionale, sensoriale, emotiva e intellettiva, di una fusione con il tutto come aspirazione all’origine.

Perin ricolloca il mito nel quadro delle sue origini naturalistiche e religiose. “Il mito -ha scritto il sensibilissimo poeta e acuto critico Alfonso Gatto- è sempre in divenire come l’utopia, sempre all’altezza e al rischio della vocazione: non sfugge e non può sfuggire al sigillo del tutto-detto e all’insita ambiguità del rivelare”.

Ma non è il già detto, il già vissuto, bensì una chiave di comprensione dell’oggi, del nuovo, del presente direttamente fusa nell’esperienza del passato più remoto, più vicino alle origini, in un rinnovarsi di capacità immaginativa e di afflato poetico che consentono di arricchire di stimoli, di punti di vista, di tensioni il logos, la razionalità. Non si tratta, dunque, ne di sterile compianto per il paradiso perduto, per i sogni negati, ne di incantamenti e innamoramenti di sola natura culturale, citazionista, dotta, restaurativa. E sotto l’astrazione ideale, cui perviene l’immagine elaborata da una raffinatissima e lunga elezione formale, si sente urgere la sollecitazione di tensioni (ancestrali, attuali, fisiche e metafisiche insieme) proprie della condizione dell’uomo contemporaneo.

Il mito che ritorna a vivere nella scultura e nella pittura – sempre più correlate e quasi complementari – di Piero Perin appare allora una sorta di itinerario conoscitivo e riconoscitivo della propria identità che parte dalla reimmersione dei sensi nel gran libro della natura e ne disvela attraverso figure emblematiche il percorso dalla sensorialità pura, panica, alla liberazione, elevazione, conquista verso lo spazio aperto, verso la luce, l’intelligenza, l’armonia, la bellezza. La struttura stessa dei dipinti e delle sculture, la progressione in verticale della linea e delle immagini svelano questa intenzione di racconto emblematico dell’artista. Il respiro e tutta l’atmosfera onirico-evocativa, il denso cromatismo giocato su una vasta gamma di verdi e azzurri, le figure metamorfiche (statue, incarnazioni di miti maschili e femminili) che abitano le selve, e poi gli animali, l’acqua, il cielo, gli uccelli, la luna sono tutti elementi coordinati a creare una continuità di discorso e di racconto che impasta dati naturalistici, fonti arcaiche, reinterpretazioni letterarie, aspirazioni affioranti dall’intimo della psiche in segreti fraseggi, che promuovono acute inquietudini, sogni, desideri, tensioni verso lo squarcio di luce che in alto si apre per stendere sulle cose e sugli uomini i suoi riverberi magici, le sue influenze, i suoi irresistibili richiami.

Gli stessi caratteri sono ravvisabili nella scultura che Perin modella con la sensualità e l’attenzione prolungata dell’autentico plasticatore: la figura sembra emergere dalla terra-natura, materia plasmabile che si erge in ritmo di musicale crescita inferiore, in progressiva purificazione, per alleggerimento e liberazione del gesto. Il movimento di rastremazione é lentissimo e coinvolge la figura a tutto tondo, procedendo cioè senza appiattimenti e sviluppando profondità necessario a evidenziare i passaggi dalla luce all’ombra e viceversa, o meglio, la progressiva penetrazione della luce da parte della forma, della materia che si scioglie nello spazio. Le sue figure femminili, le sue numerosissime teste di donna, i suoi volti di Cristo (si veda soprattutto quello recentissimo coperto dal sudario) tendono all’immersione nella luce, al fremito ultimo in cui la sensualità diventa puro pensiero, comprensione totale, assoluta.

Classicismo mitologico, simbolismo dell’eros Junghiano, sensorialità spiccata ed esercitata a contatto con la natura, nelle campagne di un’infanzia colma di sogni, di fantasie, di racconti, di suggestioni, capacità visionaria e mestiere meticoloso e geloso delle fasi di processualità tecnica come momenti di dilatazione del dialogo intimo con la forma e di espansione percettiva lungo l’itinerario di scoperta e di conoscenza, sono gli elementi che concorrono a fare dell’arte di Piero Perin un’arte umanissima, ricca di contenuti e di suggestioni, di emozioni profonde che ci riportano davvero sulle tracce dell’identità e dei valori dell’essere umano, sul sentiero di una possibile restituzione di dignità alla nostra esistenza minacciata di svuotamento e di distruzione.
Con una sensibilità che alimenta un’intelligenza profonda del valore dell’uomo e che, dunque, supera ogni confine di etnía e di geografia culturale, perché tocca le connotazioni essenziali della specie, Perin richiama l’attenzione sulla qualità dei tempi e dei modi di vita, sulla qualità dei rapporti con la realtà, sulla necessità di ristabilire l’organicità dell’itinerario della conoscenza dall’immersione e partecipazione sensoriale alla vita della natura alla consapevolezza, al pensiero, alla creatività dell’immaginazione e dell’intelligenza.

Sono valori che Perin esalta anche nella scultura pubblica e monumentale, dalla quale è bandita ogni retorica, e piuttosto che quella del gesto recitativo è cercata l’eloquenza dell’armonia delle emozioni, delle forme, dei richiami naturalistici e delle vibrazioni luminose atte a indicare l’interiorizzazione e spiritualizzazione della sensorialità, la sua metamorfosi in intelletto, in pensiero creativo, libero.

Padova, maggio 1985